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L'investigatore (o detective, in lingua inglese) è chi svolge indagini finalizzate all'accertamento od all'esclusione di determinati fatti che si sospettano avvenuti e dei quali gli si richiede una prova valida, anche a tutela di un diritto in sede giudiziale. L'investigatore privato (autorizzato da specifica licenza prefettizia) svolge indagini su incarico di privati, aziende, enti pubblici, nonché degli avvocati al fine della ricerca di elementi di prova da utilizzare nel contesto del processo penale (art. 327 bis c.p.p.). L'entrata in vigore del Decreto Ministeriale n. 269 del 01 dic 2010, in aggiunta alle disposizioni dell'art. 134 T.U.L.P.S., ha elevato a qualità di professione l'attività dell'investigatore privato.


L'attività di investigazione privata è uno dei settori in cui è maggiormente evidente il contrasto e l’esigenza di bilanciamento tra la protezione dei dati personali e gli altri diritti costituzionalmente garantiti, tra cui quello alla difesa ex art. 24 Cost..

Sempre più frequentemente, infatti, le investigazioni private sono finalizzate all’acquisizione di dati e informazioni utilizzabili in giudizio dalle parti.
Nel d. lgs. 196/2003, Codice della protezione dei dati personali, sono riportate diverse disposizioni che riguardano il settore in esame, a partire dall’art. 13, c. 5, lett. b, che stabilisce una deroga all’obbligo di informativa preventiva all’interessato presso il quale sono raccolti i dati personali, allorquando “ i dati sono trattati ai fini dello svolgimento delle investigazioni difensive di cui alla legge 7 dicembre 2000, n. 397, o, comunque, per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento”.
Analogamente, non sussiste obbligo di acquisire il consenso scritto dell’interessato, ai sensi dell’art. 24, c. 1, lett. f, per il trattamento dei dati effettuato “ai fini dello svolgimento delle investigazioni difensive di cui alla legge 7 dicembre 2000, nr. 397, o, comunque, per far valere o difendere in sede giudiziaria un diritto, sempre che i dati siano trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento, nel rispetto della vigente normativa in materia di segreto aziendale e industriale”. Per i dati sensibili, ai sensi dell’art. 26, c. 4, lett. c del Codice , è necessaria anche l’autorizzazione del Garante per la protezione dei dati personali; per i dati supersensibili, il trattamento dei dati è subordinato all’ulteriore condizione che il diritto tutelato “deve essere di rango pari a quello dell’interessato, ovvero consistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile”.
L’art. 135 del Codice stabilisce, altresì, che “il Garante promuove, ai sensi dell’articolo 12, la sottoscrizione di un codice di deontologia e di buona condotta per il trattamento dei dati personali effettuato per lo svolgimento delle investigazioni difensive di cui alla legge 7 dicembre 2000, nr. 397, o per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, in particolare da liberi professionisti o da soggetti che esercitano un’attività di investigazione privata autorizzata in conformità alla legge”.
Inoltre, anche in questo campo la regola è costituita dal diritto alla protezione dei dati personali ex art. 1 del Codice, mentre l’eccezione è rappresentata da tutto ciò che limita questa situazione giuridica, cioè il trattamento dei dati personali, che è pertanto minuziosamente e formalisticamente disciplinato dalla normativa, che prevede numerose misure di garanzia e controllo, a cominciare dagli adempimenti dell’informativa e del consenso e proseguendo con il diritto di accesso ex art. 7 dello stesso Codice, fino agli incisivi strumenti di tutela previsti dagli artt. 141 e ss. del citato decreto legislativo 196/2003.
La regola basilare è, quindi, quella della necessità del trattamento dei dati, ex art. 3 del Codice, che, in definitiva, è uno dei profili di quello che, in diritto pubblico, verrebbe definito principio di proporzionalità. Ciò è la conseguenza dell’altissimo potenziale di lesività per la dignità personale che contraddistingue il trattamento dei dati personali e che lo fa assimilare all’esercizio di un potere pubblico, anche se effettuato da un soggetto privato.
Sono espressione del canone della necessità altre fondamentali modalità del trattamento definite dall’art. 11 del Codice, tra cui spiccano la pertinenza e la non eccedenza dei dati rispetto alle finalità per le quali sono trattati. Il mancato rispetto di tali modalità determina l’inutilizzabilità dei dati personali acquisiti, come stabilito dal citato art. 11, u.c..
Per quanto attiene all’investigazione privata assume, inoltre, grande risalto la legittimità dello scopo per cui vengono raccolti i dati, ex art. 11, comma 1, lett. b del Codice.
A tal proposito, può sembrare problematico il coordinamento con quella normativa previgente che stabilisce un regime di autorizzazione per l’attività di investigazione privata, così come previsto dall’art. 134 del R.D. 18.6.1931, nr. 773, testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, che pare fornire una cornice di legittimità intrinseca ai soggetti operanti nel settore.
Ma tale conclusione non sembra fondata, per tre ordini di considerazioni.
In primo luogo, il Codice di protezione dei dati personali, successivo alla normativa appena richiamata, stabilisce regole aggiuntive e vincolanti per l’attività di investigazione privata sotto il particolare profilo del trattamento dei dati personali.
A questa osservazione si aggiunge la circostanza che, ai sensi dell’art. 11 del R.D. 6.5.1940, nr. 635, non è invocabile il titolo autorizzatorio per esimere o diminuire la responsabilità civile o penale in cui l’autorizzato possa essere incorso. E’ noto, infatti, che il trattamento illecito dei dati può determinare danni civilmente risarcibili, ex art. 15 del Codice, oltre che responsabilità penali.
Infine vi è un argomento testuale, fornito dallo stesso art. 11, comma 1, lett. b., del Codice, che non fa riferimento alla mera legittimità dell’attività, bensì al più stringente requisito della legittimità degli scopi per cui i dati sono raccolti.
Quindi, non potrà considerarsi legittima la raccolta dei dati svolta per mera curiosità o capriccio personale, o, addirittura, per scopi illeciti anche se, per avventura, viene effettuata da soggetti legalmente autorizzati. Al contrario, sarà consentito il trattamento dei dati per scopi tutelati dalla legge, come la salvaguardia dallo spionaggio industriale della libera iniziativa privata, garantita ex art. 41 Cost., ovvero la difesa in giudizio ex art. 24 Cost..
Quest’ultimo scopo qualifica ulteriormente l’attività investigativa privata, tanto da sottrarla agli obblighi di informativa all’interessato e di consenso del medesimo per la raccolta dei dati, così come stabilito dai già citati art. 13, comma 5, lett. b e art. 24, c. 1, lett. f.
Tuttavia lo speciale regime derogatorio previsto da queste ultime disposizioni è subordinato alla sussistenza di altri due requisiti, costituiti dall’esclusiva finalità difensiva per cui sono raccolti i dati e dalla temporaneità della conservazione dei dati medesimi, limitata al tempo strettamente necessario al conseguimento della citata finalità, ai sensi degli artt. 24 e 26 del Codice, quest’ultimo in tema di dati sensibili.
Poichè l’esenzione dalla necessità di chiedere il consenso dell’interessato è essenziale per l’efficace svolgimento dell’attività di investigazione privata, se ne deduce che quest’ultima non può sostanzialmente esplicarsi se non nell’ambito di un’attività finalizzata a scopi giudiziari.
Per completare la descrizione del quadro normativo, è bene, inoltre, richiamare il provvedimento di carattere generale nr. 6/2005 del 21 dicembre 2005, emanato dal Garante per l’autorizzazione al trattamento dei dati sensibili nel settore in esame. Analogamente il provvedimento nr. 7/2005, in materia di trattamento dei dati a carattere giudiziario da parte di privati, di enti pubblici economici e di soggetti pubblici, al capo IV, punto 2, lett. c, prevede il rilascio della relativa autorizzazione ai soggetti che esercitano un’attività di investigazione privata autorizzata con licenza prefettizia.
Le finalità del trattamento, per i dati sensibili, sono stabilite dal punto 2 del provvedimento nr. 6/2005, secondo il quale il trattamento può essere effettuato per far valere o difendere in sede giudiziaria un proprio diritto, ovvero per ricercare e individuare elementi a favore di un soggetto coinvolto in un procedimento penale, ai sensi della legge 397/2000 sulle investigazioni difensive. Vengono fatte salve altre autorizzazioni generali rilasciata ai fini dello svolgimento delle investigazioni in relazione ad un procedimento penale o per l’esercizio di un diritto in sede giudiziaria, come la nr. 1/2005, riguardante i rapporti di lavoro, rilasciata il 21.12.2005.
Le modalità del trattamento sono invece stabilite dal punto 4 della citata autorizzazione nr. 6/2005, che, in particolare, prescrive la necessità di un incarico formale, specifico e motivato e l’esecuzione personale da parte dell’investigatore privato o di collaboratori soggetti a puntuale vigilanza. Il divieto per l’investigatore privato di intraprendere attività di propria iniziativa mira, evidentemente, a evitare la costituzione di raccolte di dati non giustificate da esigenze difensive concrete e attuali e sottoposte al rischio di pericolose dispersioni o indebiti trattamenti. Non si può, infatti, tralasciare la circostanza che il Codice considera a tutti gli effetti il trattamento dei dati personali come un’attività pericolosa, ai sensi del già ricordato art. 15, che richiama l’art. 2050 c.c..
In forza del punto 5, “i dati sensibili possono essere conservati per un periodo non superiore a quello strettamente necessario per eseguire l’incarico ricevuto” e, correlativamente, “una volta conclusa la specifica attività investigativa, il trattamento deve cessare in ogni sua forma, fatta eccezione per l’immediata comunicazione al difensore o al soggetto che ha conferito l’incarico”. Ai sensi del punto 6, che richiama l’art. 26 u.c. del Codice, “i dati relativi allo stato di salute e alla vita sessuale non possono essere diffusi”.
Il rispetto delle regole appena descritte, che disciplinano il trattamento dei dati personali nel settore delle investigazioni private, dovrebbe contraddistinguersi per notevole rigorosità, considerata la peculiarità di tale attività, finalizzata alla raccolta, trattamento e comunicazione di dati personali.
Le pronunce della giurisprudenza, infatti, applicano in modo molto puntuale le direttive formulate dal Codice.
Ad esempio la Cassazione, I Sezione civile, nella sentenza del 15 luglio 2005, nr. 15076, decidendo su una controversia regolata, “ratione temporis”, dalla l. 675/1996, ha affrontato il problema della durata della conservazione dei dati personali nell’attività di investigazione privata.
La Corte di legittimità, in una fattispecie di raccolta dei dati avvenuta senza la preventiva informativa all’interessato prevista dall’art. 10 l. 675/1996, ha confermato la decisione del Tribunale, secondo la quale non sussiste più la necessità di differire il diritto dell’interessato ad ottenere la cancellazione dei dati personali raccolti e ad opporsi al loro trattamento una volta ultimate le operazioni di raccolta e trattamento e versata la relativa documentazione in giudizio. Era questo il limite temporale entro il quale vigeva l’eccezionale regime di trattamento privilegiato previsto, all’epoca, dall’art. 10 comma 4, lett. a l. 675/1996, ora confermato dall’art. 13, c. 5, lett. b del Codice.
Per inciso, è stato osservato che costituiscono dati personali anche “le informazioni relative alla presenza della persona in un determinato posto, la data della presenza, il tempo di permanenza, le persone eventualmente incontrate..”
Nella prassi del Garante presenta notevole interesse, in materia di rapporti di lavoro, il provvedimento del 9.11.2006, con il quale è stato riconosciuto legittimo il trattamento dei dati effettuati dal datore di lavoro privato che aveva acquisito informazioni, tramite un’agenzia di investigazioni privata, sulla condotta di un lavoratore che svolgeva attività lavorativa presso un esercizio pubblico durante un periodo di assenza dal servizio per malattia.
La decisione, richiamando una pronuncia della Cassazione, ha affermato la legittimità del ricorso all’attività di un’agenzia investigativa privata, “laddove la stessa non sia volta ad accertare l’inidoneità o l’infermità della malattia o infortunio del lavoratore dipendente – come vietato dall’art. 5 della legge nr. 300/1970 – ad accertare l’idoneità e l’infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente, limitandosi piuttosto, come risulta dagli atti nel caso di specie, alla sola osservazione di comportamenti esteriori potenzialmente e apparentemente incompatibili con lo stato di malattia”.
2. IL PROBLEMA DELLA RESPONSABILITA’ PENALE.
La disciplina prevista dal Codice di protezione dei dati personali non esaurisce, tuttavia, il problema delle possibili responsabilità derivanti dalla raccolta dei dati effettuata nell’ambito dell’attività di investigazione privata, di cui va valutata anche la liceità penale.
Infatti sarà lecita, sussistendo i citati requisiti, solo l’acquisizione dei dati effettuata da parte dell’investigatore privato in luogo pubblico, ma non quella avvenuta in uno dei luoghi previsti dall’art. 614, c. 1, c.p., che è invece astrattamente punibile ai sensi dell’art. 615 bis c.p., nel caso in cui notizie o immagini siano state ottenute mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora. Tra i luoghi previsti dall’art. 614, c. 1 c.p. rientrano peraltro, secondo autorevole giurisprudenza, anche quelli aperti al pubblico, come bar, negozi ed altri consimili, in cui devono essere pertanto inibite le citate interferenze.
Si rileva, innanzitutto, che l’osservanza della normativa in materia di protezione dei dati personali impedisce l’insorgere di responsabilità civilistiche a carico di chi abbia effettuato raccolta e trattamento dei dati, ma non determina la nascita di un vero e proprio diritto in suo favore con effetto scriminante ex art. 51 c.p..
Solo qualora l’attività dell’investigatore privato sia ulteriormente qualificata dal diritto alla difesa, la sua condotta potrà essere scriminata sotto il profilo penale, purchè sussistano tutti i presupposti previsti dall’art. 51 c.p.; a questo fine, “non dovranno essere oltrepassati i limiti interni o logici (ricavabili già dalla ratio essendi del diritto) ed esterni (volti a salvaguardare interessi costituzionali, che risultano prevalenti sulla base di un bilanciamento che non deve, però, portare alla soccombenza totale dell’interesse tutelato dal diritto)”.
Applicando tali cooordinate ermeneutiche, l’intrusione nella vita privata da parte dell’investigatore privato, con gli strumenti ex art. 615 bis c.p., non sembra giustificabile dall’esercizio del diritto alla difesa genericamente inteso, ma solo a condizione che tale diritto sia a sua volta finalizzato alla tutela di un diritto di pari rilievo rispetto a quello violato, come quello attinente alla libertà personale di chi abbia dato l’incarico di svolgere le investigazioni. Quindi, potrebbero essere consentite le investigazioni difensive volte alla tutela della libertà personale dell’imputato, ma non quelle finalizzate alla tutela della libertà di impresa, la quale non sembra rivestire una rilevanza pari alla garanzia costituzionale dell’inviolabilità del domicilio.
Alle stesse conclusioni pare condurre un autorevole orientamento dottrinale, che valorizza l’avverbio “indebitamente” riportato nella formulazione dell’art. 615 bis c.p., sottolineando che non si tratta di un mero richiamo alle cause di giustificazione previste dal codice penale, ma di “un limite ulteriore, per effetto del quale debbono ritenersi privi di rilevanza penale comportamenti che appaiano giustificati da un interesse superiore od uguale a quello oggetto di tutela, secondo l’apprezzamento concreto del giudice”.
Si tratta, evidentemente, di una problematica estremamente delicata, da affrontare con notevole attenzione sia per evitare qualsiasi possibile abuso a danno della riservatezza delle persone, sia in considerazione della difficoltà di stilare una vera e propria graduatoria dei valori costituzionali.
La giurisprudenza, peraltro, sembra al momento propensa a considerare non punibile il soggetto che abbia agito per fini di autotutela e, in particolare, per precostuirsi una prova che lo scagioni da accuse ingiuste mosse nei suoi confronti, potendo mancare, nella fattispecie, la coscienza dell’antigiuridicità del fatto e, quindi, l’elemento soggettivo doloso previsto dall’art. 615 bis.
La pronuncia conferma che la non punibilità della condotta lesiva ex art. 615 bis è del tutto eccezionale e che solo in tali ristretti limiti potrebbe essere estesa ad analoghi comportamenti posti in essere da investigatori privati.

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